lunedì 28 gennaio 2013

"LA TREGUA", un libro per non dimenticare.


PRIMO LEVI

Primo Levi a Uia di Mondrone, Valli di Lanzo, febbraio 1940. Proprietà della famiglia Levi.
fonte :  Centro Internazionale di Studi Primo Levi

"La tregua" 

Primo Levi - ed. Einaudi 1963


Sognavamo nelle notti feroci 
Sogni densi e violenti
Sognati con anima e corpo: 

Tornare; mangiare; raccontare. 
Finché suonava breve sommesso 
Il comando dell’alba:


              «Wstawaç»;

E si spezzava in petto il cuore.


Ora abbiamo ritrovato la casa, 
Il nostro ventre è sazio, 
Abbiamo finito di raccontare. 
È tempo. Presto udremo ancora 
Il comando straniero:
               «Wstawaç».

                      11 gennaio 1946. 





“Il mattino ci portò i primi segni di libertà. Giunsero (evidentemente precettati dai russi) una ventina di civili polacchi, uomini e donne, che con pochissimo entusiasmo si diedero ad armeggiare per mettere ordine e pulizia fra le baracche e sgomberare i cadaveri. Verso mezzogiorno arrivò un bambino spaurito, che trascinava una mucca per la cavezza; ci fece capire che era per noi, e che la mandavano i russi, indi abbandonò la bestia e fuggí come un baleno. Non saprei dire come, il povero animale venne macellato in pochi minuti, sventrato, squartato, e le sue spoglie si dispersero per tutti i recessi del campo dove si annidavano i superstiti.
A partire dal giorno successivo, vedemmo aggirarsi per il campo altre ragazze polacche, pallide di pietà
e di ribrezzo: ripulivano i malati e ne curavano alla meglio le piaghe. Accesero anche in mezzo al campo un enorme fuoco, che alimentavano con i rottami delle baracche sfondate, e sul quale cucinavano la zuppa in recipienti di fortuna. Finalmente, al terzo giorno, si vide entrare in campo un carretto a quattro ruote, guidato festosamente da Yankel, uno Häftling: era un giovane ebreo russo, forse l’unico russo fra i superstiti, ed in quanto tale si era trovato naturalmente a rivestire la funzione di interprete e di ufficiale di collegamento coi comandi sovietici. Tra sonori schiocchi di frusta, annunziò che aveva incarico di portare al Lager centrale di Auschwitz, ormai trasformato in un gigantesco lazzaretto, tutti i vivi fra noi, a piccoli gruppi di trenta o quaranta al giorno, e a cominciare dai malati piú gravi.
Era intanto sopravvenuto il disgelo, che da tanti giorni temevamo, ed a misura che la neve andava scomparendo, il campo si mutava in uno squallido acquitrino. I cadaveri e le immondizie rendevano irrespirabile l’aria nebbiosa e molle. Né la morte aveva cessato di mietere: morivano a decine i malati nelle loro cuccette fredde, e morivano qua e là per le strade fangose, come fulminati, i superstiti piú ingordi, i quali, seguendo ciecamente il comando imperioso della nostra antica fame, si erano rimpinzati delle razioni di carne che i russi, tuttora impegnati in combattimenti sul fronte non lontano, facevano irregolarmente pervenire al campo: talora poco, talora nulla, talora in folle abbondanza.
Ma di tutto quanto avveniva intorno a me io non mi rendevo conto che in modo saltuario e indistinto. Pareva che la stanchezza e la malattia, come bestie feroci e vili, avessero atteso in agguato il momento in cui mi spogliavo di ogni difesa per assaltarmi alle spalle. Giacevo in un torpore febbrile, cosciente solo a mezzo, assistito fraternamente da Charles, e tormentato dalla sete e da acuti dolori alle articolazioni. Non c’erano medici né medicine. Avevo anche male alla gola, e metà della faccia mi era gonfiata: la pelle si era fatta rossa e ruvida, e mi bruciava come per una ustione; forse soffrivo di piú malattie ad un tempo. Quando venne il mio turno di salire sul carretto di Yankel, non ero piú in grado di reggermi in piedi.
Fui issato sul carro da Charles e da Arthur, insieme con un carico di moribondi da cui non mi sentivo molto dissimile. Piovigginava, e il cielo era basso e fosco. Mentre il lento passo dei cavalli di Yankel mi trascinava verso la lontanissima libertà, sfilarono per l’ultima volta sotto i miei occhi le baracche dove avevo sofferto e mi ero maturato, la piazza dell’appello su cui ancora si ergevano, fianco a fianco, la forca e un gigantesco albero di Natale, e la porta della schiavitú, su cui, vane ormai, ancora si leggevano le tre parole della derisione:   «Arbeit Macht Frei»,  «Il lavoro rende liberi».”


Da :  Primo Levi  - “La Tregua”
         1° cap“Il Disgelo” pagg. 15-17 
         Einaudi Ed.Nuovi Coralli 1971 

"La tregua" è il seguito di "Se questo è un uomo" e narra del viaggio del ritorno, dopo la liberazione avvenuta da parte dei Russi, dal campo di concentramento di Auschwitz in Polonia fino a Torino. Un viaggio tortuoso e incredibile lungo un percorso attraverso luoghi, paesi e citta' della Russia, della Romania, Ungheria, Austria, Germania e, finalmente, in Italia.  "La prima pattuglia russa giunse in vista del campo verso mezzogiorno del 27 gennaio 1945", scrive Primo Levi nelle prime pagine del libro e, nelle ultime:  "Giunsi a Torino il 19 ottobre..."
"La tregua" ha vinto il Premio Campiello 1963
Devo ringraziare la mia professoressa di lettere delle scuole medie che, nel corso delle sue lezioni, ci ha arricchito con la lettura di pagine di questi libri di Primo Levi, che restano tra i più belli che ho letto. Chi non avesse avuto ancora questa occasione, non esiti a rimediare: sono sicuro che gli rimarranno nel cuore e ne racconterà e leggerà le pagine ai figli e nipoti.


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