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lunedì 8 maggio 2023

Chiaro di Luna

 6 Maggio 2023

Castelvecchio Pascoli


"Che via via men fisse

vanian le stelle all’alba della luna."

da Gli Emigranti nella Luna - Nuovi Poemetti - 1909

Giovanni Pascoli





vedere in : Nuovi Poemetti

mercoledì 30 novembre 2022

AUTUNNO

 Castelvecchio Pascoli

         Novembre 2022         


                                                              



 









 



   



 






Mattino d'autunno

Che dolcezza infantile
nella mattinata tranquilla!
C’è il sole tra le foglie gialle
e i ragni tendono fra i rami
le loro strade di seta.

Federico García Lorca



Federico García Lorca : 

(Fuente Vaqueros5 giugno 1898 – Víznar19 agosto 1936) è stato un poetadrammaturgo e regista teatrale spagnolo, che raggiunse il riconoscimento internazionale come figura emblematica della generazione del '27, un gruppo principalmente di poeti che introdusse le avanguardie artistiche - come il simbolismo, il futurismo e il surrealismo - nella letteratura spagnola con risultati eccellenti, in quella che fu definita la Edad de Plata. Sostenitore dichiarato delle forze repubblicane durante la guerra civile spagnola, fu catturato a Granada, dove si trovava ad alloggiare in casa di amici, e fucilato da uno squadrone delle forze nazionaliste. Il suo corpo fu poi gettato "in un burrone ad alcuni chilometri alla destra di Fuentegrande". I suoi resti non sono mai stati trovati. 

da Wikipedia






















lunedì 2 novembre 2020

tramonto di Ottobre...

Castelvecchio Pascoli 





Ottobre ore 19.09:  le ultime luci di una sera autunnale  

 
altri tramonti



Agosto





Settembre


Foto scattate a Castelvecchio Pascoli, frazione del Comune di Barga 


 
qui il Poeta Giovanni Pascoli ha vissuto dal 1895 al 1912, anno della sua morte.

oggi la sua Casa è un Museo visitabile su prenotazione


una poesia :

 

     L'imbrunire

  Cielo e Terra dicono qualcosa
l'uno all'altro nella dolce sera.
Una stella nell'aria di rosa,
un lumino nell'oscurità.

  I Terreni parlano ai Celesti,
quando, o Terra, ridiventi nera;
quando sembra che l'ora s'arresti,
nell'attesa di ciò che sarà.

  Tre pianeti su l'azzurro gorgo,
tre finestre lungo il fiume oscuro;
sette case nel tacito borgo,
sette Pleiadi un poco più su.

  Case nere: bianche gallinelle!
Case sparse: Sirio, Algol, Arturo!
Una stella od un gruppo di stelle
per ogni uomo o per ogni tribù.

  Quelle case sono ognuna un mondo
con la fiamma dentro, che traspare;
e c'è dentro un tumulto giocondo
che non s'ode a due passi di là.

  E tra i mondi, come un grigio velo,
erra il fumo d'ogni focolare.
La Via Lattea s'esala nel cielo,
per la tremola serenità.

da
I Canti di Castelvecchio





pubbl.02.11.20
foto di mario bonuccelli

giovedì 9 novembre 2017

la fine di Ottobre




31 OTTOBRE 2017









































La salita verso Casa Pascoli e il Borgo della Poesia, 

la mattina appena sorto il sole.





il sole è tramontato, ancora poche ore e anche Ottobre finisce...




            


" I due alberi"  di Giovanni Pascoli



Vento dei Santi, il giorno si raccoglie
già per morire; e tu su’ due gemelli
alberi soffi, e stacchi lor le foglie.

Ora le tocchi appena, ora le svelli:
quali cadono a una a una, quali
partono a branchi, come vol d’uccelli.

Tutta una fuga, quando tu li assali,
si fa nel cielo, e in terra, fra le zolle,
un fruscìo grande, un vano tremor d’ali:

stridono e vanno, girano in un folle
vortice, frullano inquïete attorno,
calano con un abbandono molle.

A volte sembra muovano al ritorno,
a sbalzi... Ma, tu le riprendi, e porti
con te, via. Tutte son cadute e il giorno

è morto: tu lo sai, vento dei Morti!


ii


    Viene col vento un canto di preghiera
e di tristezza, e vanno via le foglie
con lui, stridendo in mezzo alla bufera:

“Noi di noi siamo le fugaci spoglie:
la nostra vita è sempre là dov’era.

Il vento in vano all’albero ci toglie:
là rinverzicheremo a primavera„.

Col vento via le vane foglie vanno;
gemono, mentre intorno si fa sera.

“Non torneremo al rifiorir dell’anno:
noi ce n’andiamo avvolte nell’oblìo.

Non fu la vita che un fugace inganno.
L’albero è morto. Addio per sempre! Addio!„

È morto il giorno, ed anche muor la sera,
ed anche muore il canto tristo e pio.
E il cielo splende su la terra nera.


iii


Il vento trova la sua strada ingombra
di foglie e stelle. Gli alberi, sparito
e l’uno e l’altro. Io vedo una grande ombra.


Ne vedo un solo. All’animo lo addito,
l’albero solo. Spunta da un velame
di nebbia eterna, ed empie l’Infinito.

Protende le invisibili sue rame
cui sono appesi d’ogni parte i mondi.
Si crolla ad un grande alito il fogliame;

e d’un perenne tremolìo le frondi
lustrano ardenti. Alcuna cade e brilla
giù per gli abissi ceruli, profondi.

Io, sotto la corona, che sfavilla,
dell’Universo, odo, smarrito assòrto,
uno stridìo. Forse una foglia oscilla

ancora a un ramo dell’albero morto.








Nuovi Poemetti - 1909


martedì 28 febbraio 2017

mattino del 27 novembre...

tu nebbia impalpabile
e scialba

27 novembre 2016
ore 7.20














Nascondi le cose lontane,
tu nebbia impalpabile e scialba,
tu fumo che ancora rampolli,
      su l’alba,












da
"Canti di Castelvecchio"

NEBBIA
Poesia di
Giovanni Pascoli

Montagna&Montanari post del 6 ottobre 2012




sabato 31 dicembre 2016

martedì 26 aprile 2016

Albero

di Castelvecchio Pascoli


All'inizio della via che sale a Caprona, il Borgo della Poesia, dove si trova la casa di Giovanni Pascoli
c'è questo albero splendido, illuminato dal sole al tramonto.
E' grande; mi piace immaginarlo lì per accogliere i visitatori che, dal parcheggio, salgono verso la Casa del Poeta offrendo d'estate la sua ombra.
e' parte del bello e del buono della nostra valle.






Parcheggio dello Zi Meo
 e la strada che sale al Ciocco







domenica 13 dicembre 2015

Castelvecchio Pascoli, 12 Dicembre 2015


in ricordo di questo giorno di tristezza









Il Ciocco
di Giovanni Pascoli


Canto Primo


     Il babbo mise un gran ciocco di quercia
su la brace; i bicchieri avvinò; sparse
il goccino avanzato; e mescè piano
piano, perchè non croccolasse, il vino.
Ma, presa l’aria, egli mesceva andante.
E ciascuno ebbe in mano il suo bicchiere,
pieno, fuor che i ragazzi: essi, al bicchiere
materno, ognuno ne sentiva un dito.
Fecero muti i vegliatori il saggio,
lodando poi, parlando dei vizzati
buoni; ma poi passarono allo strino,
quindi all’annata trista e tribolata.
E le donne ripresero a filare,
con la rócca infilata nel pensiere:
tiravano, prillavano accoccavano
sfacendo, i gruppi a or a or coi denti.
Come quando nell’umida capanna
le magre manze mangiano, e via via,
soffiando nella bassa greppia vuota,
alzano il muso, e dalla rastrelliera
tirano fuori una boccata d’erba;
d’erba lupina co’ suoi fiori rossi,
nel maggio indafarito, ma nel verno,
d’arida paglia e tenero guaime;
così dalla mannella, ogni momento,
nuova tiglia guidata era nel fuso.
   Io dissi: “Brucia la capanna a gente!„
E i vegliatori, col bicchiere in mano,
tutti volsero gli occhi alla finestra,
quasi a vedere il lustro della vampa,
ad ascoltare il martellare a fuoco,
ton ton ton, nella notte insonnolita.
Non c’era nella notte altro splendore
che di lontane costellazioni,
e non c’era altro suono di campana,
se non della campana delle nove,
che da Barga ripete al campagnolo:
- Dormi, che ti fa bono! bono! bono! -
Non capparone ardeva per le selve,
zeppo di fronde aspre dal tramontano;
non meta di vincigli di castagno,
fatti d’agosto per serbarli al verno;
non metato soletto in cui seccasse
a un fuoco dolce il dolce pan di legno:
sopra le cannaiole le castagne
cricchiano, e il rosso fuoco arde nel buio.
Al buio il rio mandava un gorgoglìo,
come s’uno ci fosse a succhiar l’acqua.
Tutto era pace: sotto ogni catasta
sornacchiava il suo ghiro rattrappito.
In cima al colle un nero metatello
fumava appena in mezzo alla Grand’Orsa.
Che bruciava?... La quercia, assai vissuta,
fu scalzata da molte opre, e fu svelta
e giacque morta. Ma la secca scorza,
all’acqua e al sole rifiorì di muschi
e un’altra vita brulicò nel legno
che intarmoliva: un popolo infinito
che ben sapeva l’ordine e la legge,
v’impresse i solchi di città ben fatte.
E chi faceva nuove case ai nuovi,
e chi per tempo rimettea la roba,
e chi dentro allevavali dolci figli,
e chi portava i cari morti fuori.
Quando s’udì l’ingorda sega un giorno
rodere rauca torno torno il tronco;
e il secco colpo rimbombò del mazzo
calato da un ansante ululo d’uomo.
E il tronco sodo ora spuntava fuori
la zeppola d’acciaio con uno sprillo,
or la pigliava, e si sentiva allora
crepare il legno frangolo, e stioccare
le stiglie or dalla gran forza strappate,
ora recise dalla liscia accetta:
lucida accetta che alzata a due mani
spaccava i ciocchi e ne facea le schiampe.
Le schiampe alcuno accatastò; poi altri
se le portò nella legnaia opaca.
Del popolo infinito era una gente
rimasta in un dei ciocchi. Ebbe l’accetta
molte case distrutte, ebbe d’un colpo
il mazzo molte sue tribù schicciate.
Ma i sorvissuti non sapean già nulla
chè, volgendo i lor mille anni in un anno,
chi schivò l’ascia, chi campò dal mazzo,
l’ago sentì, che, dopo un po’ che cuce,
il Tempo, uggito, punta nel lavoro,
e se ne va. Nessuno ora sapeva
che il mondo loro fu congiunto al tutto
della gran quercia, sotto un cielo azzurro.
Sapeva ognuno che non c’era altr’aria
che quell’odor di mucido, altro suono
che il grave gracilar delle galline
e il sottile stridìo dei pipistrelli:
dei pipistrelli che pendeano a pigne
dai cantoni, nel giorno, quando il sole
facea passare i fili suoi tra i licci
d’una tela che ordiva un vecchio ragno.
Così passava la lor cauta vita
nell’odoroso tarmolo del ciocco:
e chi faceva nuove case ai nuovi.
e chi per tempo rimettea la roba,
e chi dentro allevava i dolci figli,
e chi portava i cari morti fuori.
   E videro l’incendio ora e la fine
i vegliatori: disse ognun la sua.
   E disse il Biondo, domator del ferro,
cui la verde Corsonna ama, e gli scende
cantando per le selve allo stendino,
e per lui picchia non veduta il maglio:
   “Vogliono dire ch’hanno tutti i ferri,
quanti con sè porta il bottaio, allora
ch’è preso a opra avanti la vendemmia:
l’aspro saracco, l’avido succhiello,
e tenaglie che azzeccano, e rugnare
di scabra raspa e scivolar di pialla.
Che non hanno bottega: a giro vanno
come il nero magnano, quando passa
con quello scampanìo sopra il miccetto;
ossia concino, o fradicio ombrellaio,
voce del verno, la qual morde il cuore
a chi non fece le rimesse a tempo.
Né lëo lëo vanno, come loro.
Piglian le gambe e stradano, la vita,
come noi, strinta dal grembial di cuoio„
   E disse il Topo, portatore in collo,
primo, fuor che del Nero; sì, ma questi
porta più poco, e brontola incaschito:
— Carico piccolo è che scenta il bosco:-
   “Vogliono dire ch’han la tiglia soda
più che nimo altri che di mattinata
porti in monte il cavestro e la bardella.
E hanno l’arte, perchè intorno al peso
girano ora all’avanti ora all’indietro
or dalle parti, per entrarci sotto.
Se lo possono, via, telano; quando
non lo possono, vanno per aiuto
e su e su, per una carraiuola:
come una nera fila di muletti
di solitari carbonai, su l’Alpe,
che in quel silenzio semina i tintinni
de’ suoi sonagli. Alcuno ecco s’espone,
come anco noi, per ragionar con altri
che scende, e frescheggiare allo sciurino„
   E disse il Menno, vangatore a fondo,
a cui la terra, nell’aprir d’aprile,
rotta e domata ai piedi ansa e rifiata:
e’ la sogguarda curvo su l’astile:
 “Ho inteso dire ch’hanno i suoi poderi,
come noi. Sotto le città ben fatte
coltano un campo sodo: che bel bello
si fa lo scasso, e qua si tira dentro,
là si leva la terra, e si tramuta
con le pale, o valletti e cestinelle.
La pareggiano, seminano. Nasce
un’erba. Ed ecco poi vanno a pulirla,
levano il loglio, scerbano i vecciuli,
e scentano la sciamina, cattiva,
e la gramigna, che riè cattiva,
e i paternostri, ch’è peggior di tutte.
A suo tempo si sega, lega, ammeta,
scuote, ventola, spula. Eccolo bello
nel bel soppiano dai due godi il grano„
   E disse il Bosco, buon pastor di monte,
ch’era ad albergo: egli da Pratuscello
mena il branco alla Pieve, a quei guamacci;
per là dicon guamacci: è il terzo fieno:
   “Ho inteso dire ch’hanno le sue bestie:
quali, pecore, e quali, proprio bestie,
ossia da frutto, ovvero anche da groppa.
Ma piccoline e verdi queste, e quelle
con una lana molle come sputo:
pascono in cento un cuccolo di fiore.
E il pastore ha due verghe, esso, non una:
due, con nodetti, come canne; e molge
con esse: le vellica, e danno il latte;
o chiuse dentro, o fuori, per le prata:
come noi, che si molge all’aria aperta,
nella statina, le serate lunghe:
quando su l’Alpe c’è con noi la luna
sola, che passa, e splende sui secchielli,
e il poggio rende un odorin che accora„
   E disse il Quarra, un capo, uno che molto
girò, portando santi e re sul capo,
di là dei monti e del sonante mare:
ora s’è fermo, e campa a campanello:
   “Lessi in un libro, ch’hanno contadini
come noi; ma non come mezzaiuoli
timidi sol del Santo pescatore,
e che, d’Ottobre, quando uno scasato,
cerca podere, a lui dice il fringuello:
   — Ce n’è, ce n’è, ce n’è, Francesco mio!-
Quelli no: sono negri. Alla lor terra
venne un lontano popolo guerriero,
che il largo fiume valicò sul ponte.
Fecero un ponte: l’uno chiappò l’altro
per le gambe, e così tremolò sopra
l’acqua una lunga tavola. Fu presa
la munita città, presi i fanciulli,
ch’or sono schiavi e fanno le faccende;
e il vincitore campa a campanello„
E qui la China, madre d’otto figli
già sbozzolati, accoccò il filo al fuso,
mise il fuso sul legoro, le tiglie
si strusciò dalla bocca arida; e disse:
   “Io l’ho vedute, come fanno ai figli
le madri, ossia le balie. Hanno i figlioli
quasi fasciati dentro un bozzolino.
Lo sa la mamma che lì dentro è chiuso
il lor begetto, ch’è cicchin cicchino,
e dorme, e gli fa freddo e gli fa caldo.
Lasciano all’altre le faccende, ed esse
altro non fanno che portare il loro
furigello ora all’ombra ed ora all’aspro,
in collo, come noi; ch’è da vedere
come via via lo tengono pulito,
come lo fanno dolco con lo sputo;
e infine con la bocca aprono il guscio,
come a dire, le fasce; e il figliolino
n’esce, che va da sé, ma gronchio gronchio„
Così parlando, essi bevean l’arzillo
vino, dell’anno. E mille madri in fuga
correan pei muschi della scorza arsita,
coi figli, e c’era d’ogni intorno il fuoco;
e il fuoco le sorbiva con un breve
crepito, nè quel crepito giungeva
al nostro udito, più che l’erme vette
d’Appennino e le aguzze alpi Apuane,
assise in cerchio, con l’aeree grotte
intronate dal cupo urlo del vento,
odano lo strider d’un focherello
ch’arde laggiù laggiù forse un villaggio
con le sue selve; un punto, un punto rosso
or sì or no. Né pur vedea la gente
là, che moriva, i mostri dalla ferrea
voce e le gigantesse filatrici:
i mostri che reggean concavi laghi
di sangue ardente, mentre le compagne
con moto eterno, tra un fischiar di nembi,
mordean le bigie nuvole del cielo.
Ma non vedeva il popolo morente,
gli dei seduti intorno alla sua morte,
fatti di lunga oscurità: vedeva,
forse in cima all’immensa ombra del nulla,
su, su, su, donde rimbombava il tuono
della lor voce, nelle occhiute fronti,
da un’aurora notturna illuminate,
guizzare i lampi e scintillar le stelle.
   E lo Zi Meo parlò. Disse: “Formiche!
L’altr’anno seminai l’erba lupina.
Venne la pioggia: non ne nacque un filo.
Vennero i soli: il campo parea sodo.
Un giorno che v’andai, vidi sul ciglio
del poggio un mucchiarello alto di chicchi.
Guardai per tutto. Ad ogni poco c’era
un mucchiarello. Erano semi, i semi
d’erba lupina. Avean rumato poco?
Non un chicco, ch’è un chicco, era rimasto!
Aveano fatto, le formiche, appietto!
E ben sì che v’avevo anco passato
l’erpice a molti denti, e su la staggia,
per tutte bene pianeggiar le porche,
mi facev’ir di qua dì là, come uno 
fa, nel passaggio, in mezzo all’Oceano„