"Maria, dolce sorella: c'è stato tempo che noi non eravamo qui? che io non vedevo, al levarmi, la Pania e il Monte Forato? che tu non udivi, la notte, il fruscio incessante del Rio dell'Orso?..."
(da Primi poemetti - prefazione)
By Lucca Live on ottobre 6, 2013
13 ottobre 2013
FESTA DEL BORGO DELLA POESIA – Degustazione di Antichi
Sapori nel Giardino di Casa Pascoli
PROGRAMMA DELLA GIORNATA
Nella mattina:
Dalle ore 10.00 -
Visite guidate gratuite alla Casa Museo di Giovanni Pascoli;
Alle ore 11.30 – Cerimonia inaugurale della manifestazione
alla presenza delle autorità, parteciperanno una delegazione del Comune di
Montignoso e degli Amici di Pascoli di Massa; durante la cerimonia verranno
messe a dimora alcune rose antiche provenienti dalla Villa Giorgini di
Montignoso, testimonianza di un connubio culturale, di amicizia e di passione
botanica tra Giovanni Pascoli e il Sen. Giovan Battista Giorgini e sua figlia
Matilde;
Dalle ore 12.30 - Degustazioni di prodotti tipici della
Garfagnana e Valle del Serchio – Menù con degustazione di salumi, formaggi,
farro i.g.p. della Garfagnana, trippa, frittelle con farina di grano e di
castagne, dolci casalinghi
Nel pomeriggio:
SIMONETTA BARTOLINI presenta il libro “Il fanciullino nel
bosco di Tolkien. Pascoli: la fiaba, l’epica e la lingua”.
GRAZIELLA COSIMINI legge Giovanni Pascoli.
Il gruppo di ottoni BRASS BAND esegue brani di famose
composizioni musicali.
L’associazione culturale SMASKERANDO propone
rappresentazioni di antichi mestieri.
Saranno presenti banchi di prodotti e lavorazioni
artigianali locali.
Info e prenotazioni: info@fondazionepascoli.it (+39)
3487505767
da "Primi Poemetti" (1897 - 1904)
Prefazione
I
pavlo maiora
A Maria Pascoli
PREFAZIONE
MARIA, dolce sorella: c'è stato tempo che noi non eravamo
qui? che io non vedevo, al levarmi, la Pania e il Monte Forato? che tu non
udivi, la notte, il fruscio incessante del Rio dell'Orso? Il campaniletto di
San Niccolò, bigio e scalcinato, che mi apparisce tra i ciliegi rosseggianti
de' loro mazzetti di bacche, e i peri e i meli; quel campaniletto, c'è stato un
tempo in cui non lo sentivamo annunziare la festa del domani? Din don... Din
din don Din din don... Non fu quel prete smunto e cereo, che viene su per la
viottola col breviario in mano, non fu esso il rettore che ci battezzò? non era
Mère il buon contadino che ci rallegrava fanciulli col suo parlare a scatti,
coi suoi motti e proverbi curiosi? "Il cane fa ir la coda, perché non ha
cappello da cavarsi": ecco una sua osservazione sottile a proposito del
nostro Gulì. E quel fringuello che canta così da vicino il suo francesco mio e
il suo barbazipìo, non è stato sempre così vicino? Non li abbiamo sentiti
sempre quei più minuti e più confusi e più teneri chiacchiericci dei
cardellini? Quelle verlette (sono venute da poco a portare il caldo), quelle
canipaiole (vennero quando c'era da seminar la canapa; vennero a dirlo ai
contadini), che sembrano ninnare i loro nidiaci con una fila di note sempre
uguali; tonde, in gorgia, le prime, limpide e veloci e tristi come un lamento
di piccolo, le altre; non le abbiamo sempre avute nella nostra campagna? E non
abbiamo sempre udito cantar gli sgriccioli, che hanno tanta voce e sono così
piccini? gli sgriccioli che... Parlano romagnolo? Dicono magnè, magnè,
magnè!... E quei balestrucci che strisciano intorno per l'aria coi loro
scoppiettii rapidi e sonori, non li abbiamo sempre avuti nella nostra casa?
C'erano anzi, negli anni passati, anche le rondini, quelle che hanno il pettino
rugginoso, non bianco, e la lunga coda biforcuta, e il canto più soave e più
parlato; ma ebbero che dire con queste loro rissose sorelle del pettino bianco;
e se ne sono andate. Ce n'è qualche nido sotto il tetto della chiesa, in un
luogo molto ombroso e solitario. Sentono cantare i vespri e le litanie da una
parte; dall'altra frusciare il Rio dell'Orso. Vivono in gran ritiro, come
pensose ancora, nel loro appartato sfaccendare, d'una sventura domestica e
comune, toccata là, nelle isole lontane. O rondinelle dal petto rosso, o
rondinelle dal petto bianco, se poteste andar d'accordo! Le une e le altre io
vorrei torno torno sotto le mie grondaie, e vorrei avere tutto il dì, mentre
sto curvo sui libri, negli occhi intenti ad altro, la vertigine d'ombra del
vostro volo! Mi fate tanto buona compagnia già voi, bianche. Io non so che cosa
succede stamane. Ho sorpreso una viva conversazione familiare dentro un nido.
C'erano pigolii e strilli. Qualcuno alzava la voce. E ne siete uscite in tre o
quattro. Che si è deliberato nella capannetta sospesa, che forse è la residenza
del capo-tribù? forse l'impianto di nuove case? Fate pure. E buona caccia! Le
mosche abbondano quest'anno, come sempre. A proposito: si chiede a che servono
le mosche. Chiaro, che a nutrir le rondini. E le rondini? Chiaro, che a
insegnare agli uomini (perciò si mettono sopra le loro finestre) tante cose:
l'amore della famiglia e del nidietto. La prima capanna che uomo costruì, di
terra seccata al sole, alla sua donna, gli insegnò una coppia di rondini a
costruirla. Ciò fu al tempo dei nomadi. Le rondini viaggiatrici insegnarono
all'uomo di fermarsi. E gli dettero il modellino della casa. Solo, l'uomo lo
capovolse.
Ma questa voce che è? un rotolio che mai non finisce, come
d'un treno che non arriva mai. È il Fiume, cioè il Serchio. Di', Maria, dolce
sorella: c'è stato tempo che noi non s'udiva quella voce? Oh! sì: belle Panie
aguzze e taglienti, bel fiume sonoro, cari balestrucci affaccendati, care
verlette, care canipaiole, cari reattini, caro campanile; sì, c'è stato quel
tempo che noi non si viveva così da presso. E se sapeste, che dolore allora,
che pianto era il nostro, che solitudine rumorosa, che angoscia segreta e
continua! Ma via, uomo, non ci pensare: mi dite. Ma no, pensiamoci anzi.
Sappiate che la dolcezza lunga delle vostre voci nasce da non so quale
risonanza che esse hanno nell'intima cavità del dolore passato. Sappiate che
non vedrei ora così bello, se già non avessi veduto così nero. Sappiate che non
godrei tanto di così tenue (per altri!) materia di gioia, se il martòro non
fosse stato così duro e così durevole e non fosse venuto da tutte le possibili
fonti di dolore, dalla natura e dalla società, e non ne avesse ferito tutte le
possibili sedi, l'anima e il corpo, l'intelligenza e il sentimento. Non è vero,
Maria? E benedetto dunque il dolore! Perché in ciò riconoscere un atroce sgarbo
della matrigna Natura, che il poco bene che ci dà, ci dia solo a patto di male?
Io dico parola più giusta. Io dico: O madre Natura, siano grazie a te che anche
dal male ricavi per noi il bene. Noi, mansueta Maria, abbiamo a lungo camminato
per l'erta viottola del dolore, e ci siamo anche stancati, o Maria, molto; ma
la passeggiata ci ha dato un giovanile appetito di gioia. Sì, che anche una
crosta ammuffita e una scodella di legumi sono buon cibo alla nostra fame.
Ricordiamo, o Maria: ricordiamo! Il ricordo è del fatto come
una pittura: pittura bella, se impressa bene in anima buona, anche se di cose
non belle. Il ricordo è poesia, e la poesia non è se non ricordo. Quindi noi di
poesia ne abbiamo a dovizia. Potrò significarla altrui? Aspettando i «Canti di
Castelvecchio» e i «Canti di San Mauro», il presente e il passato, la
consolazione e il rim-pianto, aspettando questi canti che echeggiano già così
soave nelle nostre due anime sole; leggi, o Maria, anzi rileggi questi
poemetti. E leggeteli voi, anime candide, cui li affido. Leggeteli
candidamente. Perché pare naturale in chi legge una continua preoccupazione,
come se egli pensasse o sapesse che chi scrive si rivolge a lui con aria di
baldanza e quasi di sfida, dicendogli: Vedi come sono bravo! Onde il lettore fa
ogni sforzo per resistere e non lasciarsi persuadere o commuovere da colui che
egli suppone sia per menar vanto di tale successo. Oh! no, candide anime! io
non voglio farmi onore; voglio, cioè vorrei, trasfondere in voi, nel modo
rapido che si conviene alla poesia, qualche sentimento e pensiero mio non
cattivo. Vorrei che voi osservaste con me, che a vivere discretamente, in
questo mondo, non è necessario che un po' di discrezione... Vorrei che pensaste
con me che il mistero, nella vita, è grande, e che il meglio che ci sia da
fare, è quello di stare stretti più che si possa agli altri, cui il medesimo
mistero affanna e spaura. E vorrei invitarvi alla campagna.
Appunto oggi è arrivata gente di fuori, di lontano. I
rondoni. Strillano in gruppi di quattro o cinque: in corse disperate, come
pazzi. Fanno il nido nei buchi lasciati dalle travi. Ecco che io ho intorno
casa anche i rondoni, popolo bellicoso e straniero, vestito di nero opaco.
Ahimè! con le rondini non andranno d'accordo! saranno risse e guerre! Ma no. Io
vi racconto, per finire, un fatto di cui sono stato testimonio or ora. Un
rondone (è forse una femmina: certe bontà si suppongono meglio in una che fu o
è per essere madre), un rondone viene e riviene, col suo volo di saetta, a uno
de' miei nidini di balestruccio. Vuol forse impadronirsene? cacciarne la
famigliola che c'è già? No: egli porta ogni volta qualche cosa da mangiare; sta
arrampicato un poco alla porticella o finestrella del nido, ed è subito sbarazzato
della sua piccola preda. O caro buon rondone: tu non hai forse da fare oggi; tu
non hai forse ancora compagno o compagna; e, tanto per non stare (ero per dire,
con le mani in mano: ma non si tratta d'uomini, qui) per non stare in ozio, dài
un po' d'aiuto a una rondinella, a una d'altra nazione e razza, che ha forse
troppi figliuoli e troppo da fare e poco da mangiare. Carità... internazionale!
O caso più pietoso ancora, si tratta d'orfanelli? e un altro povero li nutre e
tira su alla meglio?
Uomini, dirò come in una favola per i bimbi: uomini, imitate
quel rondone. Uomini, insomma contentatevi del poco («assai» vuol dire sì
abbastanza e sì molto: filosofia della lingua!), e amatevi tra voi nell'ambito
della famiglia, della nazione e dell'umanità.
Ma io non parlo più a te, dolce Maria. Eccomi a te di
nuovo... Ma c'è da fare il pane. Oggi è sabato. Lasciamo la penna, e andiamo.
Andiamo, buona sorella, a fabbricarci il nostro pane quotidiano, o, a dir
meglio, settimanale, che ci sembra poi così buono, né solo perché fatto a
crocette, come è usanza della nostra Romagna (qua li chiamano colombini, come
quelli di Pasqua), ma perché intriso, rimenato e foggiato dalle nostre proprie
mani. Andiamo dunque a fare opera... indovina, di che?... di emancipazione,
figliuola mia!
Castelvecchio di Barga, 5 di giugno 1897.
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